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EPISODIO MANIACALE (EUFORIA)

E DISTURBO BIPOLARE

Credo che non sia superfluo, visto l’uso comune che viene fatto di questo termine, ricordare che mania non ha niente a che fare con maniaco, nel senso, ad esempio, di “maniaco sessuale”, “manie di persecuzione” ( che non si chiamano così, bensì deliri ), o “maniaco dell’ordine” ( che si definisce, invece, ossessivo-compulsivo ). Mania significa, in psichiatria, stato di eccitamento, euforia, in un certo senso “il contrario”  della depressione maggiore. Se nella condizione depressiva tutte le funzioni sono caratterizzate da diminuzione ( minus ), rallentamento, nella mania si riscontra un aumento ( plus ), una accelerazione delle funzioni.

Nello stato maniacale, il tono dell’umore è esageratamente elevato e, come nella depressione maggiore, disconnesso dagli eventi. Il paziente maniacale “non si è mai sentito così bene” e mantiene tale stato euforico indipendentemente dal fatto di averne o meno motivo. Anche lo stato fisico è sintonico, e pertanto le energie sono superiori alla norma, tanto da far percepire al paziente un minore bisogno di alimentarsi e di dormire.

Il corso dell’ideazione è accelerato ( fuga delle idee ), con difficoltà a soffermarsi su un argomento;   l’eloquio è   altrettanto    accelerato ( logorrea ), senza pause, e il dialogo è quasi impossibile.

Il comportamento è caratterizzato da aumento dell’attività motoria e delle iniziative, che non sono supportate da logica e riflessione, anche per l’allentamento dei freni inibitori. Di conseguenza, si verificano azioni imprudenti o socialmente sconvenienti. Ad esempio, può accadere che il paziente faccia acquisti o prenda impegni economici in modo insensato; oppure che diventi inadeguatamente intraprendente sotto il profilo sessuale. Ciò provoca nell’ambiente circostante reazioni di intolleranza e, talvolta, azioni legali. Altre volte,  l’umore euforico e la ipervitalità conferiscono al paziente un alone di simpatia, per quanto risulti comunque pesante tollerarne gli eccessi.

L’insieme di queste caratteristiche - percezione soggettiva di estremo benessere; iperattività con insofferenza a soffermarsi; caduta della critica e dell’inibizione - rende lo stato maniacale una delle patologie più difficilmente trattabili. Il paziente, infatti, oltre a non vedere la necessità di curarsi (ci si cura quando ci si sente male), è anche sostanzialmente incapace di ascolto e di riflessione.

 A volte, specialmente negli stati ipo-maniacali, ovvero meno gravi, che sono anche i più frequenti, sentimenti di simpatia da parte del medico possono renderlo meno deciso nell’attivare le misure terapeutiche; del resto, è un raro caso avere a che fare con un paziente che non si lamenta e che non chiede cure!

 Negli stati gravi, viceversa, i comportamenti del paziente provocano grande e giustificato allarme, oltre a conseguenze pratiche, cosicché diventa un caso capace di infondere  un notevole senso di impotenza e quindi di esasperazione, il che può spingere a scivolare  più facilmente sul piano conflittuale.

In questi casi, è possibile riscontrare anche la presenza di ideazioni deliranti, solitamente in sintonia con l’umore elevato, quindi con contenuti di grandezza, onnipotenza.

TERAPIA DEGLI STATI EUFORICI

 

Come implicito nel vissuto del paziente in fase maniacale, la prima difficoltà consiste nel riuscire a condurlo all’osservazione del medico e, in caso positivo, nell’accompagnarlo a riconoscere la propria condizione di malattia con la conseguente necessità di trattamento.

I farmaci più mirati sono gli stabilizzatori dell’umore, i quali, tuttavia, necessitano più che mai, per essere efficaci, di una valida  assunzione, condizione, questa, molto improbabile a realizzarsi nella contingenza.

Il più spesso, sempre che si riesca nell’intento, in fase acuta si finisce per prescrivere neurolettici (tranquillanti maggiori), che provocano rallentamento psicomotorio e ansiolitici (tranquillanti minori), che sedano.

Peraltro, va tenuto presente che dosi massicce di neurolettici possono facilmente accentuare la depressione di uscita, nella quale sfocia già naturalmente la fase maniacale. Le depressioni di uscita sono spesso molto gravi, quindi a rischio. Di conseguenza, appena possibile, ovvero appena riappare nel paziente la coscienza di malattia e la disposizione a collaborare, è opportuna la diminuzione/sospensione dei neurolettici, sostituendo questi ultimi con gli stabilizzatori.

Non di rado, l’approccio risulta però impossibile. In questo caso l’unico strumento utilizzabile è, purtroppo, il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).

DISTURBO BIPOLARE

 

 

Con questo termine si intende il verificarsi, nel tempo, di episodi depressivi maggiori e di episodi maniacali, non necessariamente alternati fra loro in modo regolare, ma comunque separati da intervalli di benessere, di almeno alcuni mesi.

 A volte, il passaggio fra un episodio ad un altro di segno opposto può avvenire anche in continuità; in questi casi si parla di viraggio. Più frequentemente, i viraggi sono legati all’azione dei farmaci, a condizione che esista un terreno di bipolarità. Ad esempio, il trattamento intensivo con antidepressivi di un episodio depressivo maggiore può virare in maniacalità, sempre che esista una predisposizione alla bipolarità. In più rari casi, si assiste alla contemporanea presenza, nello stesso episodio, di sintomi depressivi e maniacali. Queste forme sono dette disturbi dell’umore  misti.

In tutte queste forme sono indicati gli stabilizzatori dell’umore.

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​marco tanzella psichiatra prato

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STABILIZZATORI DELL’UMORE 

 

Sotto questo termine si raggruppano una serie di molecole utilizzate allo scopo di trattare stati di eccitamento (maniacali) in fase acuta o di prevenire recidive nei disturbi ricorrenti (depressivi e soprattutto bipolari). Tali molecole si identificano sostanzialmente con antiepilettici, sali di litio. Più recentemente, sono entrati in uso, con funzione di stabilizzatori, anche gli antipsicotici atipici.

I dosaggi efficaci degli antiepilettici, contrariamente al loro uso in neurologia, non appare sempre  strettamente correlata ad un range (intervallo tra minimo e massimo) di dosaggio nel sangue.

Viceversa, il trattamento con sali di litio prevede, perché si realizzino condizioni di efficacia, precisi schemi di assunzione e precise procedure di monitoraggio.

Il litio si trova nelle condizioni di efficacia, rispetto alla prevenzione delle recidive, se la litioemia (dosaggio del litio nel sangue) rimane in un range definito. Per quanto la definizione di tale range non sia perfettamente univoca, ritengo che indicare un minimo di 0,5 meq/l ed un massimo di 0,90 corrisponda, statisticamente, al miglior indice terapeutico. Una litioemia inferiore a 0,50 corrisponde ad assenza di protezione, mentre un livello superiore a 0,90 può iniziare a provocare effetti collaterali fastidiosi. I livelli di tossicità sono molto variabili, ma normalmente si realizzano intorno ai 2,0-3,0 o oltre. Nonostante il rapido raggiungimento del range valido, l’attività protettiva può iniziare anche dopo alcuni mesi di assunzione.

La maggior parte delle volte, il giusto range viene raggiunto con l’assunzione di 900 mg/die di carbonato di litio, ma la dose giornaliera adeguata deve comunque essere regolata in base alla litioemia. E’ fondamentale avere presente (e far comprendere bene al paziente) che avere una litioemia inferiore a 0,50meq/l equivale a non assumere il litio; pertanto, l’assunzione deve essere assolutamente costante, regolare ed eventualmente aggiustata solamente in base ad una litioemia inadeguata. Poiché il litio è in equilibrio con gli altri  sali, variazioni dei livelli di questi ultimi possono modificare ( ad es. in conseguenza di alimenti, sudorazione, etc.) quelli del litio. In particolare, è opportuno un controllo più ravvicinato della litioemia nella stagione più calda.  

La durata della profilassi è tuttora discussa. La maggior parte delle scuole concorda per un periodo di cinque anni, dopo i quali, purché si sia verificata la assenza di recidive, si raggiunge una stabilità che sopravvive alla sospensione del litio. Tuttavia, alcuni casi si rivelano resistenti alla sospensione e necessitano di periodi di trattamento più lunghi o anche trattamento cronico.

Sul piano medico generale, le implicazioni più relativamente frequenti, in termini di effetti collaterali, riguardano la funzione renale e la funzione tiroidea; più raramente, altri apparati. Di conseguenza, oltre ai controlli della litioemia, inizialmente più frequenti e, a regime, trimestrali, è corretto effettuare altri controlli  periodici.

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